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Channel: I testi della tradizione di Filastrocche.it
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L’astronave prigioniera

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Enzo e Paolo catturano mosche in giardino e le mettono in un grande vaso di vetro rovesciato su un tavolino di legno. Vogliono insegnare loro a stare in equilibrio su una palla e a saltare in un cerchio di fuoco, proprio come fanno gli animali ammaestrati del circo.
Infatti i due bambini sognano di diventare due grandi domatori di leoni. Intanto però, dato che sono bambini giudiziosi e prudenti, cominciano con le mosche: sanno bene che in queste cose non bisogna fare il passo più lungo della gamba.
Otto mosche sono già prigioniere nella gabbia trasparente: volano da una parte all’altra senza riuscire a trovare una via d’uscita. Il loro ronzio si sente anche attraverso il vetro.
Improvvisamente Paolo dice : “Ehi! Ne ho presa una enorme! Senti come ronza!”. Poi solleva il bordo del vaso e spinge dentro il grosso insetto. Questo si posa con un voletto sulla tavola, proprio al centro della prigione di vetro.
Enzo corre a guardare: “Ma che razza di mosca è?” chiede incuriosito.
In effetti la mosca di Paolo non è proprio come tutte le altre: è tonda, viola, con finestrine rosa sui lati, una antenna gialla storta e tre zampette di metallo che la tengono in piedi.
“Sembra una piccola astronave…” dice Paolo perplesso.
Infatti quella è una piccola astronave! Si apre un portello e si affaccia un esserino che li guarda male: è giallo come un limone maturo, ha il naso a proboscide, tre occhi e un piccolo becco al posto della bocca.
è molto diverso da loro, ma i due bambini capiscono subito che è arrabbiato. Infatti il piccolo spaziale scende agilmente dalla sua astronave e agita frenetico le braccia; dal becco-bocca escono suoni strani e poco amichevoli. Ora salta con le corte zampette sul tetto dell’astronave e, sempre più arrabbiato, indica l’antenna ai due bambini che intanto si sono avvicinati al vaso di vetro per vedere meglio.
“Forse vuole che ripariamo l’antenna” dice Enzo tranquillamente.
Paolo però è nervoso: “Io ho paura, Enzo, scappiamo via!”.
I due bambini non fanno in tempo a scappare: da una tasca il minuscolo spaziale prende un martello altrettanto piccolo e con due botte decise sistema l’antenna. Poi pigola ancora qualcosa in direzione dei bambini, mostra loro minacciosamente il martellino e risale nella sua astronave.
Un attimo dopo questa vibra e parte come un razzo: rimbalza quattro o cinque volte contro il vetro del vaso, poi lo sfonda e vola via verso il cielo.
Anche le mosche prigioniere volano via felici.
Enzo e Paolo sono stupiti : “E ora che cosa facciamo?” chiede Paolo.
Enzo ci pensa per un lungo momento e poi risponde: “Ora smettiamo di dare la caccia alle mosche: è troppo pericoloso !”.

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Emilia, Donato e l’invasione delle lumache

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Da “Io e il mio bambino – speciale 0-14″ – Numero Settembre 2007 – Sfera Editore

Era l’ultimo giorno delle vacanze e a Riccione aveva piovuto tutta la notte. Aveva smesso soltanto in tarda mattinata ed Emilia e Donato erano molto tristi. Il giorno dopo sarebbero tornati a casa, ognuno nella propria città: Emilia a Milano, Donato a Modena. Questo significava che per un anno non si sarebbero visti e che la scuola sarebbe ricominciata nel giro di pochi giorni.
C’era davvero poco da stare allegri! E in più ci si era messa la pioggia a rovinare le ultime ore di mare e di bagni.
Le vacanze erano state proprio belle ed Emilia e Donato ne avevano fatte di tutti i colori insieme. A farle erano stati tutti e due, ma a pensarle era stata quasi sempre Emilia. Donato, però, non se lo faceva ripetere due volte quando c’era da mettere in pratica uno dei piani diabolici della sua amica, per la quale provava un’ammirazione sconfinata. E non poteva essere diversamente, visto che una mattina Emilia lo aveva difeso da un gruppo di bambine antipatiche (e racchie), che lo prendevano in giro perché portava l’apparecchio e lo chiamavano “Donato carrarmato” (l’apparecchio in effetti era alquanto ingombrante e vistoso, ma non era un buon motivo per trattare male Donato).
“Beh, che c’è?”, aveva chiesto Emilia alle sue amiche (improvvisamente diventate “ex amiche”), che ridevano di Donato. “Donato ha un apparecchio bellissimo e sull’abbronzatura gli fa un effetto metallizzato stupendo. E quando lo toglierà, avrà dei denti diritti che voi ve li scordate”.
Dopo questo episodio, Donato ed Emilia diventarono inseparabili, fregandosene altamente delle bambine antipatiche e racchie che facevano coretti del tipo “Donato ama Emilia” ogni volta che li vedevano passare insieme. Per questo erano tanto dispiaciuti che le vacanze stessero per finire. E poi ci era messa pure la pioggia. Ora stava uscendo il sole, ma di fare il bagno, quel pomeriggio, non se ne parlava nemmeno, figuriamoci. E con la sabbia tutta bagnata, sarebbe stato impossibile anche fare la pista per le biglie.
Per consolarsi i due amici erano andati a prendersi un gelato cioccolato-nocciola-stracciatella-doppia panna e lo mangiavano seduti su una panchina, nei giardinetti pubblici di fronte alla spiaggia, guardando sconsolati le foglie gocciolanti.
Una lumaca stava attraversando lentamente il vialetto davanti a loro, lasciando una scia argentata dietro di sé.
“Che schifo di giornata”, disse Donato. “Con questa pioggia, giusto le lumache saranno contente”.
Emilia fece un salto: “Che cosa hai detto?”.
“Che con questa pioggia è uno schifo”.
“No, sulle lumache”.
Donato alzò le spalle, proprio non capiva che cosa stesse frullando in testa alla sua amica. “Che le lumache saranno contente”, rispose.
“Appunto, e se sono contente, che cosa fanno?”.
Donato era sempre più incredulo. “E che ne so? Non sono una lumaca. Chiedilo a loro”.
“Scemo”, disse Emilia. “Escono”.
“Chi?”.
“Le lumache, no?”.
Donato non riusciva a seguirla. “E allora?”, chiese, un po’ spazientito.
Emilia lo guardò MOLTO spazientita.
“Insomma, volevo dire che dopo questa pioggia usciranno molte lumache, possiamo raccoglierle e metterle nei nostri secchielli”.
“E cosa ce ne facciamo?”.
Emilia lo guardò ancora una volta, era MOOOOOLTO spazientita. Ma al tempo stesso negli occhi le brillava una luce strana. E allora Donato capì.
Subito dopo pranzo, i bambini si ritrovarono ai giardinetti, armati dei loro secchielli e anche di quelli dei fratelli piccoli. Come aveva previsto Emilia, le aiuole erano PIENE di lumache, di tutte le dimensioni e di tutte le sfumature di marroncino.
I due amici riempirono i quattro secchielli e si incamminarono verso la spiaggia. Gli ombrelloni erano quasi tutti vuoti: erano tutti ancora in albergo o al bar a prendere il caffé, ma avevano lasciato lì asciugamani e borsoni.
“Meglio”, disse Emilia, “possiamo agire indisturbati”.
Nascosero le lumache tra gli asciugamani e nelle borse da spiaggia delle signore (che poi erano quasi tutte le mamme, antipatiche e racchie, delle bambine antipatiche e racchie che avevano preso in giro Donato per l’apparecchio).
“Pensa quando cercheranno nella borsa la crema solare e si ritroveranno in mano una lumaca!”, disse Emilia.
“Possiamo fare di meglio”, disse Donato, con un’aria molto fiera di sé. E bisbigliò qualcosa nell’orecchio all’amica. Per una volta, aveva avuto un’idea anche lui. E che idea…
Con un paio di forbicine fecero dei piccoli tagli sulla stoffa della sedia a sdraio della signora Leopolda Tartaglia, cantante lirica in pensione, nota soprattutto per essere una vecchia grassa e brontolona, che se la prendeva sempre con i bambini quando giocavano “a voce troppo alta”).
A poco a poco, la spiaggia si riempì di nuovo. Le signore erano tornate e si preparavano a prendere il sole, quando una serie di urli, uno più stridulo dell’altro, si levò da ogni angolo della spiaggia.
“Aaaaahhh, che cos’è questo coso viscido?”.
“Aiuto, un mostro striscia sul mio asciugamano!”.
“Accorruomo! Bagnino! Salvataggio! La mia borsa è invasa dalle lumache!”.
Si scatenò un parapiglia e un fuggi fuggi generale. L’unica che non riuscì a scappare fu la signora Tartaglia, benché a lei fosse stata riservata la lumaca più grande e bavosa. Ma quando provò ad alzarsi dalla sedia a sdraio, non ci riuscì, perché il tessuto tagliato aveva ceduto sotto il peso del suo sederone. E così, mentre tutti scappavano, lei era rimasta incastrata nella sedia, con il sedere per terra e un’enorme lumaca che le strisciava su una gamba.
Alla fine, in preda a una crisi isterica, fu salvata dal bagnino (che chiamò a rinforzo 6 colleghi per riuscire a tirarla su, tre per braccio e uno che la spingeva da dietro la schiena).
Emilia e Donato recuperarono tutte le lumache e le riportarono al giardinetto, dopo averle ringraziate e aver chiesto scusa per il trambusto. Si scusarono anche con le signore della spiaggia, ma solo perché furono obbligati dalle loro mamme, che non ci avevano messo nemmeno un minuto a capire chi avesse provocato quell’invasione. Non ammisero mai, però, di aver tagliato loro la tela della sedia a sdraio della signora Tartaglia. E siccome la vecchia cicciona era antipatica a tutti, le mamme di Emilia e Donato fecero finta di crederci.

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Una nuova amica per Arianna

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Da “Io e il mio bambino – speciale 0-14″ – Numero Giugno 2007 – Sfera Editore

“Arianna, puoi fermarti un momento qui con me?”.
La campanella era già suonata e Arianna stava uscendo con i suoi compagni. E quando la maestra le chiedeva di fermarsi di solito c’erano guai in vista.
Arianna prese in esame le diverse possibilità:
1) Avrà scoperto che ho fatto copiare il compito di matematica a Leo?
2) Avrà scoperto che Leo mi ha fatto copiare il compito di storia?
3) Avrà scoperto che sono stata io, ieri, a incollare pagina per pagina il quaderno di Fulvio Caroppo?
Fulvio Caroppo era il bullo della classe e Arianna aveva capito che l’unico modo per difendersi dalle sue prepotenze era giocare d’astuzia.
Nessuna delle previsioni di Arianna era giusta, perché la maestra voleva soltanto chiederle un favore.
“Un favore? A me?”
“Certo”, rispose la maestra. “Domani arriverà in classe una nuova compagna. Straniera. Vorrei che la aiutassi ad ambientarsi”.
“E da dove viene?”.
“Dalla Romania”.
La mattina dopo la maestra presentò a tutta la classe la nuova allieva, poi le disse di sedersi vicino ad Arianna. La bambina, che si chiamava Daculia Nosferatu, aveva i capelli scuri, era pallidissima ed era tutta vestita di nero, compreso un paio di occhiali da sole che non si toglieva nemmeno in classe. Lì per lì Arianna pensò che fosse la sorella minore di Marylin Manson, o comunque una seguace di qualche moda punk-dark-heavy-metal. Ma Arianna era anche una bambina molto intelligente e non le fece domande indiscrete. Si limitò a spiegarle come funzionava la scuola, dove stavano la mensa e la biblioteca, le indicò i bidelli gentili e quelli da cui era meglio stare alla larga e soprattutto le disse di non farsi intimidire da Fulvio Caroppo e dai suoi due amici Ugo e Timoteo. Certo, erano grandi e grossi e si divertivano a spaventare gli altri bambini. “Ma se ti danno fastidio, dimmelo, che ci penso io”. C’era stato un tempo, infatti, in cui Caroppo, Ugo e Timoteo si divertivano a prendere in giro Arianna e a rubarle la merenda, ma avevano smesso dopo che lei aveva preparato un panino-bomba per loro, riempiendolo di pepe, peperoncino, senape, ketchup, zucchero, miele, sale, marmellata di prugne e di albicocche, dentifricio.
“Sei molto gentile”, disse Daculia alla sua nuova amica, appoggiandole la mano su un braccio. E Arianna rabbrividì, perché la mano era ghiacciata.
Il giorno dopo Arianna invitò la sua amica a fare i compiti a casa sua. A metà pomeriggio la mamma si affacciò alla stanza, chiedendo alle due bambine che cosa volessero per merenda. E Daculia chiese pane e marmellata di ciliegie e succo di pomodoro.
“Che strani gusti”, pensò Arianna. Ma siccome era una bambina MOOOLTO intelligente, non fece nessuna domanda.
“Simpatica la tua amica”, disse la mamma di Arianna dopo che Daculia se n’era andata. “Però, almeno in casa, gli occhiali neri poteva toglierseli”.
“Dice che la dà noia la luce”, spiegò Arianna.
A essere sinceri, Daculia era strana davvero. La maestra assegnò un tema su come avrebbero voluto passare le prossime vacanze e tutti i bambini scrissero che il loro sogno era andare in qualche isola tropicale, mentre Daculia disse di amare i posti umidi e piovosi, vicino alle paludi. Nell’ora di disegno, i bambini dovevano fare il ritratto del loro animale preferito e Daculia disegnò un pipistrello, anzi un intero sciame di pipistrelli, con le ali nere e il corpo peloso, che anche la maestra restò un po’ sconcertata, a dire la verità.
Ma la cosa più strana accadde il giorno in cui Daculia arrivò a scuola con l’apparecchio per i denti. “Certo, ti dona molto”, le disse Arianna. “Ma non capisco perché te l’hanno messo. I tuoi denti sono drittissimi”.
“E’ per i canini”.
“Ma quelli sono i più dritti di tutti”.
“Infatti, serve a storcerli. E’ una tradizione di famiglia”.
Arianna, che era una bambina molto, ma molto, ma MOOOLTO intelligente non fece altre domande.
Arrivò il momenti in cui fu Daculia a invitare Arianna. “Mia madre dice che puoi restare anche a dormire”, le disse.
Dopo uno scambio di telefonate tra mamme, fu stabilito che Arianna avrebbe passato la notte del sabato a casa dell’amica. Trovare l’indirizzo non fu facile. Il papà di Arianna si perse un paio di volte nella nebbia, prima di arrivare a un vecchio cancello arrugginito. “Sei sicura che è il posto giusto?”, chiese alla figlia prima di suonare il campanello.
“Guarda, c’è scritto ‘Nosferatu’, devono essere loro per forza”. E in quel momento il cancello si aprì.
“Beh, ciao”, disse il papà. “Ti vengo a prendere domattina”.
La casa di Daculia, almeno all’interno, si rivelò molto più accogliente. E soprattutto, fu accogliente la famiglia di Daculia. I genitori ringraziarono Arianna per avere aiutato tanto la figlia ad ambientarsi a scuola. Il fratellino piccolo, Roman, mostrò alla bambina tutta la sua collezione di ragni, pipistrelli, serpenti e topi di gomma. Ma fu il fratello maggiore, Vlad, a colpire Arianna, con quell’aria da bel tenebroso e i capelli neri tirati indietro con i gel.
“Ti piace mio fratello, eh?”, chiese Daculia all’amica, che diventò tutta rossa.
E a proposito di rosso… La cena sembrava dedicata a quel colore: pasta al sugo, fettine alla pizzaiola, insalata di pomodori e, da bere, succo di pomodoro. E una fantastica crostata alla marmellata di ciliege.
Al momento di andare a dormire, Daculia chiese ad Arianna: “Ti danno noia i rumori di notte?”.
“Che tipo di rumori?”, chiese Arianna.
“Mmm, beh… Sai, rumori tipo pesanti catene trascinate per terra”.
“E chi li fa?”.
“Il mio trisnonno… Se fosse vivo avrebbe 150 anni…”.
“Un fantasma?”.
“Diciamo così… Tanto hai capito, no?”.
E allora, per Arianna, fu tutto chiaro. Il succo di pomodoro, i pipistrelli, gli occhiali neri in pieno giorno, l’apparecchio per storcere i canini”.
“Ma allora siete dei vampiri! E mi hai invitato qui per mordermi e trasformarmi in vampira come te!”.
“Macché”, rispose Daculia. “Siamo vegetariani da generazioni. Beviamko solo succo di pomodoro. Come potrei tradire la mia migliore amica? Ma neanche tu mi tradirai, vero? Non racconterai a scuola il mio segreto?”.
“Certo che no”, disse Arianna tutta seria e le due bambine si strinsero la mano e decisero di firmare, proprio quella notte, un patto di sangue tra loro. E per firmare, ovviamente, usarono la salsa di pomodoro.

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Il presepe vivente di Rollo e Angela

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Da “Io e il mio bambino – speciale 0-14″ – Numero Dicembre 2006 – Sfera Editore

Il Natale è sempre una tragedia. Almeno per Rollo e Angela. Ci mancherebbe, anche a loro piace stare a casa da scuola, scartare i regali, andare alla messa di messa di mezzanotte, se il prete non la tira troppo in lungo. Quello che a loro proprio non va giù è il presepe vivente messo in scena ogni anno dalla loro parrocchia, al quale tutti i bambini del catechismo devono partecipare.
Rollo e Angela farebbero volentieri una parte secondaria, che so, la palma, il sasso o la gobba del cammello (che poi non è un cammello, ma un dromedario). Invece no, vengono sempre scelti per ruoli importanti. Quest’anno Rollo deve fare la vedetta e restare immobile con una mano sulla fronte a scrutare l’orizzonte (per vedere che, poi?). Che con un cannocchiale dal campeggio, almeno, uno si dà un tono. Ma così… Ad Angela, invece, è toccato il ruolo della stella cometa. Deve vestirsi con una tunica dorata e sfilare tra le due file di panche, in chiesa, tendendo in alto un’enorme stella cometa di cartone, dorata anche quella.
“Non si trattava di una cometa, ma di una congiunzione planetaria, l’hanno detto a SuperQuark”, ha protestato Angela, che è un’appassionata di scienza (tanto che i suoi compagni l’hanno soprannominata “Piero” Angela). Ma la catechista, la Signorina Leoni, non ha voluto sentire ragioni. E Angela non ha insistito più di tanto, perché sua madre le ha proibito di fare qualsiasi commento, dopo che l’hanno prima la bambina aveva proposto di mettere anche i Puffi, Shreck e le Winx nel presepe, tanto per renderlo più moderno e inserire qualche novità. La Signorina Leoni, la sera stessa, aveva telefonato a casa della bambina per dire di mandarla dallo psicologo. E la madre di Angela si era infuriata prima con la Leoni, poi con la figlia. Con la Leoni aveva fatto una scena e le aveva detto di non permettersi mai più, nel modo più assoluto, di telefonarle per una cosa del genere, mentre con Angela aveva fatto un’altra scena (molto simile alla prima) e le aveva ordinato di non permettersi mai più, nel modo più assoluto, di contraddire la Leoni.
La mamma può dire quel che vuole, ma di fare la vedetta e la stella, a Rollo e Angela, non ne hanno voglia per niente. Tanto che all’inizio avevano pensato di farsi escludere dal presepe, con il pretesto di qualche malattia contagiosa (tipo la peste bubbonica o il morbo del legionario, che suonava bene anche se nessuno dei due sapeva che cosa fosse). Avevano anche cercato sull’elenco il telefono della Signorina Leoni, per avvisarla.
“Angela, non trovo il numero”, aveva detto Rollo. “Non c’è”.
“Guarda bene”.
“Ti dico che non c’è”, insisteva Rollo. “Qui c’è Leoni Samantha, Leoni Silvio e Leoni Simone, ma Leoni Signorina non c’è”.
Angela aveva alzato gli occhi al cielo: “Scemo, la Leoni si chiama Argia. Signorina non è un nome”.
Rollo – che per una volta non voleva darla vinta alla sua amica – aveva risposto che, tra le due, piuttosto che Argia era meglio chiamarsi Signorina. Poi ad Angela era venuto in mente che era meglio lasciar perdere la peste bubbonica e partecipare al presepe vivente, altrimenti capace che la Leoni telefonava di nuovo a sua mamma e allora sai che urli.
Che poi la Signorina Leoni non sarebbe nemmeno cattiva. Anzi, per 11 mesi all’anno è buonissima. Ma a dicembre si trasforma, perché al suo presepe vivente tiene tantissimo, per fare bella figura con il parroco, Don Dino Donizetti, che nessuno ha mai capito se è il suo vero nome o un nome d’arte, visto che tutte le volte che qualcuno lo chiama sembra di sentire suonare le campane. Ma soprattutto, alla Signorina Leoni interessa fare colpo sul direttore del coro, il signor Zazzaroni, che però non è ma signore, ma signorino anche lui (nel senso che non è sposato). La Leoni gli ha messo gli occhi addosso da un pezzo e ha perso la testa per i suoi fluenti capelli brizzolati. E lui l’ha capito, eccome! (A dire la verità lo hanno capito anche tutti i bambini del catechismo). E quando dirige il coro fa ondeggiare i capelli di qua e di là. La Leoni dice che assomiglia al Maestro Muti (che pare che sia un famoso direttore d’orchestra). Ma a parte i capelli, come direttore il signor Zazzaroni non è granché, visto che rallenta il ritmo di tutti i canti e riuscirebbe persino a trasformare una canzone di Shakira in una marcia funebre.
Il giorno del presepe vivente, la chiesa è strapiena. Rollo è in piedi al suo posto, su uno sgabello coperto di carta marrone per farlo assomigliare a una torre di guardia. Angela è in fondo alla chiesa, con indosso una tunica dorata, e regge sulla testa un’enorme stella cometa di cartone, dorata anche quella. Avanza lentamente, preceduta da due cherubini con le ali di polistirolo che fanno finta di suonare una tromba (sempre di polistirolo). Nel frattempo il coro, diretto da Zazzaroni con i capelli tutti ondeggianti, sta cantando: “Il tuo popolo in cammino cerca in Te la vita…”.
La mamma di Angela ha le lacrime agli occhi per l’emozione e indica la figlia alla signora seduta accanto a lei. “Eccola lì, guardi come è bella, ecco ora passa vicino al coro…”.
Troppo vicino. Tanto che la punta della cometa si impiglia nei capelli di Zazzaroni. Angela lì per lì non ci fa nemmeno caso e se ne accorge soltanto quando il coro smette di cantare e dal pubblico salgono prima mormorii, poi risatine, poi un’enorme, incontrollabile risata. E proprio in quel momento Rollo, dall’alto del suo posto di vedetta, si mette a gridare: “Ma quello è un parrucchino!”.
La fluente chioma brizzolata del signor Zazzaroni è rimasta attaccata alla punta della cometa, rivelando una pelata talmente lucida che ci si poteva illuminare tutta la chiesa.
Ma lo spettacolo deve continuare, “the show must go on”. Angela lo sa benissimo, lo dice anche una canzone rock dei tempi dei suoi genitori. Così conclude serissima il suo percorso e porta la stella a destinazione, sulla grotta di Gesù Bambino, con il parrucchino a penzoloni come una pallina dell’albero di Natale.
Zazzaroni è scappato a nascondersi in sagrestia, seguito dalla Leoni e da Don Dino Donizetti che gli fa pat pat sulla schiena e gli dice di non preoccuparsi, che sono cose che capitano e che secondo lui nessuno si è accorto di niente. Il coro finalmente può cantare con il ritmo giusto: “Resta sempre con noi, oh Signo-o-o-re”.
Beh, per quest’anno, nel presepe vivente della parrocchia, almeno una novità c’è. Bisogna vedere come la prenderà la Signorina Leoni.

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Le bombe intelligenti di Rollo e Angela

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Da “Io e il mio bambino – speciale 0-14″ – Numero Settembre 2006 – Sfera Editore

Quella mattina la Bitelli, la maestra di scienze, entrò in aula tutta agitata. “Ragazzi, c’è una grande notizia”, esclamò, sputacchiando più del solito per l’emozione. “La scuola organizza un concorso scientifico. Avete un mese di tempo per fare una ricerca, poi dovrete esporre i risultati a tutti gli alunni e gli insegnanti, in una giornata che chiameremo il Science Day!”.
Science Day vuol dire “giornata della scienza”, ma in inglese fa molto più effetto.
La Bitelli parlava (e sputava) a macchinetta. “La ricerca migliore sarà premiata da una giuria di cui faranno parte il nostro amato preside Leopoldo Tricarico, il sindaco e l’assessore all’istruzione. Forza, dovete iniziare subito a pensare, potete lavorare a coppie o a piccoli gruppi”.
Improvvisamente, dalla prima fila, si alzò una mano, seguita da una vocetta stridula: “Io vorrei lavorare da sola…”. Sia la mano sia la vocetta appartenevano alla Sarah (con l’acca in fondo) Ponchielli, detta anche Laponchiellisarah (sempre con l’acca in fondo), famosa perché non invitava nessuno a casa sua a studiare, non suggeriva mai o al massimo suggeriva sbagliato (apposta).
“Ti pareva che non volesse fare da sola anche questa volta”, pensò Rollo, mentre si sbracciava per arrivare l’attenzione della sua amica Angela. Rollo voleva stare in coppia con lei, un po’ perché erano amici dai tempi dell’asilo, un po’ perché Angela aveva una passione per la scienza, tanto che tutti la chiamavano “Piero” Angela. Insomma, una garanzia.
Rollo in realtà si chiamava Rolando, un nome da sfigatone che a lui non piaceva. A sceglierlo era stata sua madre, che aveva le manie di grandezza perché aveva studiato lingue all’università e si era appassionata a un poema intitolato “La chanson de Roland”. Che si legge lasciansonderoland e vuol dire “La canzone di Rolando”. Racconta di un paladino, Orlando o Rolando, che viene ucciso in battaglia (per questo, Rollo avrebbe preferito chiamarsi Ronaldo, che almeno lui vinceva e faceva sempre goal).
Il pomeriggio stesso, Rollo e Angela si ritrovarono per decidere il tema della ricerca. E pensarono subito di inventare qualcosa che potesse piacere al capo della giuria, il preside Tricarico, detto Tricaccolo perché si infilava sempre le dita nel naso. “Ci siamo!”, esclamò Rollo. “Inventeremo una pasta per fare le caccole artificiali, vedrai che il preside ci farà vincere”.
Angela non era troppo convinta. “Guarda, che secondo me dovremmo pensare a qualcosa di utile per l’umanità, chessò, contro la fame nel mondo o per la pace… Ho un’idea! Perché non inventiamo delle bombe intelligenti che non esplodono? Così le guerre le faranno con quelle e nessun bambino si farà male”.
Rollo dovette ammettere che tra una caccola artificiale e una bomba intelligente non c’era gara e che l’idea di Angela forse aveva più possibilità di vittoria. Sì, la sua amica era proprio geniale, anche se era una femmina. Però non voleva dargliela vinta subito. “Sì, ma a una condizione”, disse. “Le bombe devono assomigliare un po’ alle caccole”.
Angela sospirò, pensando che quella di Rollo era una vera fissazione, però alla fine decise di farlo contento. Prese un bloc-notes, lo aprì e lo passò a Rollo. “Guarda, ho già la formula. Stasera mia mamma prepara il pollo arrosto. Io prenderò le ossa delle cosce e le metterò a bagno nell’aceto. Devono starci 4 settimane, siamo giusto in tempo. Diventeranno elastiche e le potremo usare come fionde. Invece, la sera prima del concorso, a bagno nell’aceto ci metteremo delle uova. In una notte, l’aceto scioglie il calcio del guscio e lascia la pellicina interna, così alla mattina le uova sembreranno mollicce come caccole, sei contento? Le uova saranno le nostre bombe. Spiegheremo che nelle guerre si potranno usare queste come armi, lanciandole con l’osso-fionda. Così non morirà più nessuno. Al massimo i soldati si sporcheranno le divise”.
Il giorno della gara, Rollo e Angela si alzarono presto e furono i primi a entrare a scuola. Avevano montato un bellissimo banchetto, con le uova e gli ossi di pollo in esposizione, con tanto di cartellino “bombe intelligenti” (che davvero sembravano delle caccolone giganti) e “ossi-fionda”. Angela aveva preparato un cartellone in cui spiegava, con delle formule incomprensibili per Rollo, il processo con il quale l’aceto scioglie il calcio.
Di fianco a loro, c’era Laponchiellisarah (con l’acca in fondo) che aveva portato uno stupidissimo cartellone sul ciclo dell’acqua, con dei disegni che facevano pena.
Rollo e Angela si scambiarono uno sguardo d’intesa. Avevano la vittoria in mano.
La giuria si fermò davanti al loro banchetto. C’erano il preside Tricarico, il sindaco e l’assessore all’istruzione, in compagnia delle loro mogli. Angela iniziò a spiegare la ricerca, come avevano preparato le bombe intelligenti e gli ossi-fionda e tutte le vite umane che pensavano di salvare. Intanto Rollo faceva la dimostrazione in diretta, fingendo di lanciare una bomba-uovo e mostrando l’elasticità dell’osso-fionda.
Tutti erano molto impressionati. La maestra Bitelli continuava a ripetere: “Interessante, molto interessante”. Il preside Tricarico si infilava le dita nel naso a più non posso tanto che Rollo pensò che in fin dei conti la sua idea sulle caccole artificiali non era proprio da buttar via. Ma sul più bello, un improvviso starnuto gli fece perdere il controllo della fionda, che mandò l’uovo a spiaccicarsi sul vestito della moglie del sindaco.
Fu un disastro. Angela cercò di salvare la situazione, facendo notare a tutti che la bomba non era esplosa e quindi non aveva fatto un gran danno. Il sindaco diventò di mille colori. La moglie del sindaco svenne e, appena si riprese, iniziò a strillare che il vestito era nuovo, era il suo preferito e che dovevano ripagarglielo. La Bitelli balbettava scuse e il preside Tricarico, per lo shock, si era tolto le dita dal naso. Rollo provò a dire che la sua amica Angela era una grande scienziata e che di certo avrebbe inventato una formula per smacchiare il vestito. Tutto inutile.
I due bambini si presero una nota. E il concorso fu vinto, indovinate, dalla Sarah (con l’acca in fondo) Ponchielli, o se preferite Laponchiellisarah (sempre con l’acca in fondo). Angela consolò Rollo dicendo che nella scienza le cose vanno così e che i grandi geni sono sempre incompresi. Ma Rollo si convinse definitivamente che sarebbe andata meglio con le caccole artificiali.

PS: puoi provare anche tu l’esperimento di Rollo e Angela, ma non tirare le uova!

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Racchia Pernacchia e il papero mannaro

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Da “Io e il mio bambino – speciale 0-14″ – Numero Giugno 2006 – Sfera Editore

Arianna era una bambina molto carina eppure nella sua classe la chiamavano Racchia. In realtà nessuno sapeva bene il perché. La colpa era di Fulvio Caroppo, un suo compagno, un tipo grande, grosso e prepotente che si divertiva a inventare soprannomi cattivi per tutti. A Caroppo piaceva terrorizzare gli altri bambini, soprattutto quelli piccoli, di prima e seconda. Perché era il più grosso di tutti e quando c’era da fare a botte aveva sempre la meglio. In più girava in compagnia di Timoteo e Ugo, altri due pesi massimi. Nessuno aveva il coraggio di mettersi contro di lui, men che meno di batterlo quando si giocava a calcio. A dire la verità, Caroppo era una vera schiappa, ma durante le partite gli lasciavano sempre fare goal, per paura di essere picchiati. Lui arrivava a un metro dalle porta, dopo aver preso a calci la palla e averla mandata in tutte le direzioni fuorché in avanti. E a quel punto tirava. Il portiere non faceva nemmeno finta di pararla, ma qualche volta non bastava, perché Caroppo prendeva il palo e doveva ritirare finché non riusciva a infilare la porta. L’unica che aveva il coraggio di non permettergli di fare goal in quel modo era Arianna, che a calcio era una scheggia, anche se era una femmina. Ad Arianna proprio non andava giù che uno vincesse non per bravura, ma perché era prepotente. Così, si era messa in testa di non dargliela vinta, a quel ciccionazzo di Caroppo. E quando giocavano lo batteva sempre, anche se lui le mollava certi calci nella gambe che le venivano pure i lividi, ma Arianna stringeva i denti e via, con Caroppo che stava lì a rodersi – che anche i suoi amici lo prendevano in giro – e intanto pensava come vendicarsi.
L’occasione arrivò un giorno, in un momento di debolezza di Arianna, che si era lasciata scappare una puzzetta, rumorosa certo, ma del tutto inoffensiva. Insomma una cosetta da niente che può capitare a tutti e chissà quante volte è successo anche a te. Però da quel giorno Caroppo si era messo a chiamare Arianna con un nuovo soprannome: Racchia Pernacchia. L’idea non era certo sua. Non si sa però chi gliela avesse suggerita, perché con Fulvio, Timoteo e Ugo, tra tutti e tre, non si faceva un cervello decente.
Arianna era offesa, certo, ma nemmeno quella cattiveria era riuscita a farle passare la grinta. Ma più lei se ne infischiava, più i tre prepotenti si incattivivano. Così si erano pure messi a rubarle la merenda e se non la trovavano di loro gusto se la prendevano con lei.
Arianna non sapeva più come difendersi. Era troppo orgogliosa per parlarne con i suoi genitori o con la maestra, anche se avrebbe fatto bene. Al tempo stesso però voleva che Fulvio Caroppo la smettesse. E così la sera, dopo aver spento la luce, si rigirava nel letto pensando che cosa avrebbe potuto fare. Una notte, mentre rimuginava al buio, le sembrò che qualcuno bussasse alla sua finestra. Siccome stava al sesto piano, pensò di esserselo sognato, invece il suono si ripeté. Incuriosita, Arianna uscì dal letto, si avvicinò alla finestra e vide un paio di occhi neri neri che la fissavano. Sopra gli occhi c’erano due sopracciglione folte, nere anche quelle. E sotto gli occhi, il corpo di uno strano volatile.
Arianna restò per qualche secondo a guardarlo, chiedendosi se non stava sognando, ma l’uccello stava colpendo con il becco il vetro, come per chiederle di entrare. Arianna aprì la finestra e l’animale con un salto si ritrovò nella stanza. A prima vista sembrava un grosso papero, ma Arianna vide subito che le sopracciglione non erano la sua unica stranezza. Sulla testa, oltre alle piume, spuntavano dei pelacci neri, anche le zampe erano pelose. Ma soprattutto, dal becco sporgevano due grandi denti canini.
L’uccello si inchinò davanti a lei: “Permettimi di presentarmi, sono Gennaro”.
“Gennaro chi?”, chiese Arianna.
“Come chi? Gennaro, il papero mannaro!”
“Un papero mannaro?”
“In persona”, disse Gennaro.
Arianna pensò che con quei canini poteva anche fare il papero vampiro, ma siccome era una bambina molto intelligente, tenne per sé quel commento.
Gennaro le spiegò che di giorno era un papero come tutti gli altri e nuotava con Lorella sua sorella nel laghetto del parco vicino alla scuola. Ma nelle notti di luna piena, si trasformava in papero mannaro e vendicava in bambini vittime delle prepotenze di altri ragazzi.
“E’ un po’ che ti osservo”, disse. “Giochi bene a calcio. Ma ho visto anche tutte le cattiverie che ti fanno quei tre ragazzi: Fulvio Caroppo, Timoteo e Ugo. Ultimamente, poi, ti rubano anche la merenda”.
Arianna rimase per mezzo minuto con la bocca spalancata.
“E tu come fai a sapere queste cose?”, chiese a Gennaro.
“Beh, sono un papero mannaro, no? Mi dà una mano anche Lorella mia sorella, che è mannara anche lei”.
Arianna era davvero molto impressionata, ma Gennaro le spiegò che non aveva molto tempo, doveva andare a casa di altri bambini, tra l’altro meno svegli di lei. E le bisbigliò in un orecchio quello che avrebbe dovuto fare per sistemare i tre bulli.
Il giorno dopo Arianna, mentre faceva colazione, prese il panino al salame, che la mamma le aveva preparato come merenda, e ci mise dentro, nell’ordine: pepe, peperoncino, senape, ketchup, zucchero, miele, sale, marmellata di prugne e di albicocche, dentifricio. Poi, come se niente fosse, rimise il panino nello zainetto e andò a scuola. Come sempre, appena entrata in classe, Fulvio, Timoteo e Ugo si buttarono sul suo zaino e le presero il panino. E durante la ricreazione lo divisero in tre parti (la più grande per Caroppo) per mangiarselo. Mentre masticavano tutti soddisfatti il primo morso, Arianna e gli altri compagni li videro diventare prima rossi, poi bianchi, poi verdi, che sembravano la bandiera italiana che stava all’ingresso della scuola. Poi si misero a tossire, a fare smorfie, a gridare per lo schifo e scapparono in bagno per non farsi vedere dagli altri. Che però avevano già capito tutto e si erano messi a ridere come pazzi.
Da quel giorno nessuno dei tre se la prese con Arianna. E tutti i suoi compagni, che non avevano più paura di Fulvio Caroppo, smisero anche loro di chiamarla Racchia Pernacchia. Ma la cosa più bella è che nessun ragazzo si comportò più da bullo, per evitare scherzi come quello (o peggiori).
Ogni tanto, la sera, Gennaro il papero mannaro vola ancora sul davanzale di Arianna e con il becco colpisce il vetro, come per chiederle se va tutto bene. Arianna accende la luce e lo saluta facendo ok con la mano, poi spegne, si gira dall’altra parte e si addormenta.

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Arianna e la settimana bianca

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Da “Io e il mio bambino – speciale 0-14″ – Marzo 2008 – Sfera Editore

Che cosa c’è di più divertente di una settimana bianca con i compagni di classe? Quando la maestra di Arianna annunciò alla classe che sarebbero partiti per una vacanza sulla neve, in un centro per ragazzi in Trentino Alto Adige, dai banchi si alzò un boato di gioia.
Quel giorno, per l’agitazione generale, non fu possibile fare la verifica di matematica, prevista da settimane. La maestra, per avere un po’ di attenzione, dovette fare una lezione di geografia dedicata alle montagne, una di scienze per spiegare il fenomeno della neve e una di ginnastica presciistica nell’ora di educazione fisica. Arianna propose anche di intonare dei cori alpini, come lezione di musica, ma la maestra la fulminò con un’occhiataccia e la bambina capì che era meglio piantarla lì.
“Speriamo solo che Fulvio Caroppo non ci rovini la vacanza a tutti”, disse quella sera Arianna al suo amico Gennaro. Fulvio Caroppo era il bullo della classe, un ciccionazzo prepotente che se la prendeva con quelli meno grossi di lui, cioè tutti. Mentre Gennaro-il-papero-mannaro era un rarissimo esemplare di papero che nelle notti di luna piena bussa alla finestra della cameretta dei bambini in difficoltà, per aiutarli. Già in passato aveva suggerito ad Arianna come liberarsi di Fulvio Caroppo e insieme gli avevano dato una bella lezione. Ma Caroppo aveva la memoria corta e di tanto in tanto Gennaro doveva intervenire per rinfrescargliela.
“Stai tranquilla, in caso di bisogno verrò da te”, aveva detto Gennaro ad Arianna, ed era volato via.
Purtroppo i timori di Arianna si avverarono tutti. Nei primi due giorni, Caroppo fu più insopportabile del solito. Faceva lo sgambetto agli altri bambini con le racchette mentre erano in fila per la funivia, terrorizzava i compagni di camerata perché gli dessero il loro pranzo al sacco, minacciava i compagni del corso di sci perché lo lasciassero vincere alla gara di slalom, che si sarebbe svolta alla fine della settimana. Come se non bastasse, metteva il dentifricio negli scarponi delle bambine. Ma soprattutto, Caroppo aveva preso di mira Arianna, che era molto più brava di lui a sciare ed era la superfavorita nella gara di slalom. Caroppo non avrebbe mai sopportato di farsi battere da una femmina, figuriamoci da Arianna…
Una notte, mentre tutti nella camerata dormivano, Arianna sentì bussare al vetro della finestra. Era Gennaro, anche se lì per lì non lo riconobbe, perché per paura del freddo di montagna si era tutto imbacuccato con un cappottone e un colbacco. Gli aprì e lo fece entrare.
“Ah, sei tu?”, disse Arianna.
“E chi dovevo essere, secondo te?”, rispose burbero Gennaro.
“Non saprei, con questo colbacco, pensavo… Un cosacco del Don…”.
“Non scherzare”, ribatté Gennaro. “Esiste un ramo russo della mia famiglia. Mio cugino Gennaro il Terribile è molto meno simpatico di me. Ma insomma, non distraiamoci! Mi sembra di capire che tu abbia bisogno di aiuto”.
“E’ vero”, ammise Arianna. “Fulvio Caroppo è insopportabile. L’altro giorno ha pure cercato di farmi cadere sulla pista. Terrorizza i più piccoli, ci ruba il pranzo al sacco, insomma sta rovinando la vacanza a tutti”.
Gennaro ascoltò in silenzio, poi – con aria solenne – disse: “Ebbene, ho la soluzione che fa per te”.
E aggiunse, rivolto verso la finestra aperta: “Rufus, vieni dentro!”.
Con un salto, un enorme felino bianco dagli occhi gialli entrò nella stanza.
Arianna per la sorpresa fece un passo indietro.
“E questo chi è?”, chiese.
“Come, chi sono”, rispose il felino. “Sono Rufus, il gatto delle nevi”.
“Un gatto delle nevi?”, fece Arianna. “Ma il gatto delle nevi non è un vero gatto, è una motoslitta che va sulla neve”.
Rufus gonfiò tutto il pelo e soffiò ad Arianna, tanto che Gennaro dovette intervenire.
“Rufus, non fare così”, disse. Poi, rivolto alla bambina: “Su questo punto è molto suscettibile. Si offende facilmente quando lo scambiano con una moto da neve. Anche tu ti arrabbieresti al suo posto”.
Arianna ammise che era vero e allora Rufus le fece un cenno con il muso, come per dire che la questione per lui finiva lì.
“Rufus vuole aiutarti”, disse Gennaro ad Arianna.
“E come?”, domandò lei.
“Tu non ti preoccupare, farò la mia parte”, le rispose Rufus e con un salto uscì dalla finestra, seguito in volo da Gennaro, sebbene un po’ appesantito dal cappotto e dal colbacco.
Il giorno dopo, Arianna e i suoi compagni tornarono sulle piste. A dire il vero, le piste si svuotarono subito dopo l’arrivo di Fulvio Caroppo. Nessuno voleva correre il rischio di ritrovarselo di fianco in una discesa. E Caroppo era felicissimo di avere tutto lo spazio per sé. Stava prendendo velocità quando si accorse che sulla neve, davanti a sé, si era formata una specie di una cunetta e che la cunetta sembrava muoversi, anzi si era mossa, si era proprio girata e si era trasformata in una specie di enorme gatto bianco con gli occhi gialli che lo fissava ruggendo e mostrando denti più affilati di quelli di un leone.
Caroppo si spaventò a morte, cerco di frenare, ma ormai era troppo veloce. Perse l’equilibrio, cadde e iniziò a rotolare e mentre rotolava gli si attaccava la neve addosso, e più neve raccoglieva, più rotolava. Alla fine si fermò alle porte del paese, dove era in corso una gara di sculture di ghiaccio. Vinse il primo premio come migliore pupazzo di neve della stagione e passò il resto della settimana a letto, intirizzito e raffreddato, giurando e spergiurando che era stato inseguito da un enorme gatto delle nevi. Non era una motoslitta, ma un gatto vero. Nessuno gli fece caso, a parte le maestra che chiamò il dottore, pensando che stesse delirando per la febbre alta.
Inutile dire che Arianna e gli altri bambini si divertirono moltissimo senza di lui. Nemmeno i suoi “fedelissimi” Ugo e Timoteo (gli altri due bulli della classe) vollero restare a fargli compagnia e preferirono andare a sciare. E alla fine a vincere la gara di sci fu proprio Arianna.

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Ninna nanna per non dormire

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Ninna nanna per stare sveglio
Per non dormire, che è molto meglio.
Per fare sogni, ad occhi aperti,
Di cieli stellati e immensi deserti,
Di un mondo intero che è da esplorare
Un giorno alla volta, senza barare.
Perché esplorare è una gran fatica,
Ma è anche quel gioco che chiamiamo la vita

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Girotondo della pace

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Girotondo della pace
Questo gioco assai ci piace
Più del gioco della guerra
Che fa piangere la Terra
Che fa piangere le piante
Le fa pianger tutte quante
Che fa pianger gli animali
Dentro i boschi e sotto i mari
Che fa piangere i bambini
Soprattutto i più piccini
Che fa piangere i soldati,
E non chi in guerra li ha mandati.
Ma la pace è tutta rosa
Fa sorridere ogni cosa.
E se non c’è più la guerra
Andiam tutti giù per terra!

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La canzone della memoria

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Ricordi belli, ricordi brutti
Ricordi passati, ce n’è per tutti.
Ricordi rimasti, ricordi volati,
Ricordi vivi e ricordi scordati.
Ricordi leggeri, ricordi duri,
Alcuni di ieri, altri futuri.
Ricordi di pace, ricordi di guerra,
Di molta fortuna e di un po’ di iella.
Stanno ballando nella mia testa,
Non sono sicura, ma sembra una festa.
E’ bello a volte andare lontano
E la memoria tenere per mano.
Ma è molto più bello tornare al presente
E vivere oggi più intensamente.

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Filastrocca del nuovo anno

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Filastrocca del nuovo anno,
per fare gli auguri senza far danno.
Per divertirsi insieme agli amici
e sentirsi tutti un po’ più felici.
Per abbracciarsi, saltare e gioire
e a tarda notte andare a dormire.
Dormire, sognare e svegliarsi al mattino
per salutare un anno-bambino,
che tra tra un anno anche lui passerà.
E un anno nuovo comincerà.

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Il gioco dello specchio

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Lisa allo specchio
fa smorfie e versacci.
Col naso in sù,
col naso in giù.
la lingua fuori,
gli occhi sbarrati,
le orecchie tirate.
Dopo tanto provare,
alla fine si sa,
che Lisa si tiene la faccia che ha.

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Il gioco dell’ordine

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Quanti giocattoli
nella mia stanza,
tutti per terra,
come in una guerra.
Ma nessuno è nemico,
io voglio bene a tutti.
Dovrò metter ordine per dimostrare
che solo in pace si può giocare.

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Sotto sopra

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Sotto quel fungo
ci sta una formica
sotto un cappello
sul sasso più bello.
Ci son degli alberi
sopra il fungo ad ombrello,
sopra il cappello,
sopra il sasso più bello.
Fungo, formica, sasso
e cappello:
chi è sopra? chi è sotto?
Il gioco è proprio quello!

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La lettera misteriosa

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La trovi sola in casa,
la vedi in un vaso
e la cerchi un po’ a caso:
non c’è in cucina,
ma compare in salotto.
Corre su per le scale,
non salirà fin sul tetto!
Chiusa in bagno non è
nel mio armadio non c’è.
Dimmi un po’ tu che lettera è.

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A come AMORE

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Parlare di AMORE
ai bambini non piace
“è roba da grandi
lasciateci in pace!”

Cosa voul dire
AMORE e basta?
Meglio un bel gioco
o una grande festa

A scuola si imparano
parole astratte:
AMORE è tra quelle,
da studiare di notte!

Facciamo un gioco
per vincer la noia
capiremo l’AMORE
e sarà forse una gioia!

Cerchiamo una A
come albero, amico avventura

cerchiamo una M
come mamma, mondo, magia

cerchiamo una O
come oasi, onda, orizzonte

cerchiamo una R
come rosso, risata, ricordo

cerchiamo una E
come estate, erba, evviva!

Ecco l’AMORE, l’abbiamo trovato
non era nascosto, ma solo illustrato!

Sa un po’ di mamma, un po’ di prato,
a volte sa anche di cioccolato

Sa di magia, di sole, di me…
non è difficile capire cos’è
tutti i bambini sanno dov’è!

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I numeri

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Ancora prima di imparare a leggere i bambini contano 1…2…3…4…5… I numeri si susseguono come i versi di una filastrocca e poi a poco a poco alle cifre, che i bambini vedono come segni astratti, si associano le quantità corrispondenti.
La scoperta è lenta e graduale, dapprima fino a 5, come le dita della mano; poi fino a 10 come i gradini delle scale di casa e poi oltre.
La filastrocca semplice e divertente introduce i bambini nel mondo dei numeri in modo non traumatico, offrendo giochi di parole a loro particolarmente famigliari, che possono ripetere o reinventare esercitando fantasia e creatività.

I numeri

Lo Zero è un cerchio vuoto
mi sembra che non serva a niente
ci infilo le braccia e nuoto
perché è come un salvagente.

L‘Uno è come quel bambino
alto alto e magrolino
ha i piedi lunghi per la sua età
dicon che è segno che crescerà.

Il Due assomiglia a mia sorella
con quella gonna di flanella
a stelline bianche e blu
si crede la regina Taitù.
(e non se la vuole togliere più).

Il Tre è un po’ strano
con due gobbe non andrà lontano
dicono che sia il numero perfetto,
a me invece sembra tutto un difetto.

Il Quattro è come il mio papà
che, per leggere il giornale fino a metà,
incrocia una gamba sul piede destro
poi, per finirlo,passa al piede sinistro.

Il Cinque ha la forma di quel grande campione
che ho seguito ieri in televisione:
mentre correva saltava l’ostacolo,
sembrava stare in piedi per miracolo.

Il Sei è come lo zio Oreste
che viene a cena fin da Trieste;
dopo mangiato si siede in poltrona
e anch’io mi appisolo sulla sua panciona.

Il Sette sembra un tipo nervoso
che avrebbe bisogno di molto riposo;
se ne va in giro come un folletto
e chi lo incontra lo prende per matto.

L’Otto assomiglia alla cuoca Ersilia,
prepara dolci alla vaniglia
e li ricopre di fragole e lamponi
che sono la gioia di noi golosoni!

Il Nove è come un signore elegante
con un cappello da persona importante.
Passeggia in piazza e saluta educato
sarà un dottore o un avvocato?

Il Dieci è come il nonno di Eugenio,
da quando è invecchiato ha bisogno di un sostegno
così commina con un lungo bastone
che usa perfino per punizione (pungiglione)!

L’Undici ricorda quei due fratelli
sempre insieme come gemelli;
si tengon per mano in ogni occasione
perfino nel letto con un gran febbrone.

Il Dodici sembra quella Befana
che cavalca una scopa un po’ strana
come manico ha un uno rovesciato
e come coda un due ben agganciato.

Il Tredici assomiglia a quell’investigatore
che indaga in misteri da intenditore.
Sotto il soprabito sarà armato?
Ma no! Ha una pistola di cioccolato!

Il Quattordici è come quel saltimbanco
che vola per aria e non sembra mai stanco
le gambe incrociate tra tanti birilli,
da lassù ci vede come tanti spilli.

Il Quindici ricorda un vecchio viaggiatore
vestito da grande esploratore
andava a caccia di serpenti
cavalcando maestosi elefanti.

Il Sedici sembra un carabiniere
che compie sempre il proprio dovere
nasconde la spada sotto il mantello
e lo sguardo crudele sotto il cappello.

Il Diciassette è un tipo misterioso
che si nasconde dietro un libro polveroso
e intanto spia i vicini di casa
sperando di scoprire chissà cosa.

Il Diciotto è un signore col panciotto:
le mani in tasca e sul naso un cerotto.
Si ferma a guardare il suo orologio a cipolla
ma non si accorge che gli è uscita una molla!

Il Diciannove è come lo spazzacamino,
che salta tra i tetti meglio di un gattino,
è sempre sporco di fumi neri
e nessuno lo invita volentieri.

Alla fine il Venti non è complicato:
sembra una festa in mezzo al prato;
sono bambini che si divertono
e tanti numeri hanno scoperto.

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L’Alfabeto

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Un gioco divertente per cominciare a scoprire quei misteriosi segni che i grandi leggono con tanta felicità.
Ogni lettera ha una forma e una sua storia, un semplice ritornello che i bambini ripetono dapprima senza comprenderne il significato, ma che in seguito li aiuterà ad elaborare il concetto di lettera, un concetto difficile perché astratto.
Ci vuole tempo perché in un bambino avvenga il magico passaggio mentale dalla ripetizione meccanica del segno alla comprensione del suo significato.
Questo gioco di parole in rima si inserisce proprio in quella fascia di tempo, aiutando i bambini a compiere dolcemente questo passaggio.
E quale scoperta sarà più tardi la sillabazione della prima parola!
Saranno queste meravigliose lettere ad aprire loro un nuovo mondo: quello delle favole, dei racconti, della fantasia e del sapere!

L’Alfabeto

La A ben piantata
non è mai arrabbiata.
Ti guarda da sotto,
è un po’ impertinente,
ti strizza l’occhietto:
- Non è divertente?

La B ha due pancioni
sembran grossi meloni!
Uno sopra, uno sotto,
è proprio ingombrante!
Ma le danno l’aspetto
di persona importante!

La C è una culla
dove dormi tranquilla.
Quando è sera, dolcemente,
ti cerchi il tuo angolino
e come se non fosse niente
ti svegli quand’è già mattino.

La D tutta rosa
viene avanti maestosa.
Si da arie da gran dama:
petto in fuori, naso in sù.
Così è proprio una befana
e nessuno la guarda più!

La E ha tre lunghissime braccia
e per merenda distribuisce focaccia.
L’idea è proprio bella,
non c’è niente da dire,
ecco i bambini: una gran folla
ma la focaccia non deve finire!

La F è una spia di professione
che si nasconde dietro un lampione.
A lei piace molto curiosare:
ficca il naso dappertutto…
…chissà cosa spera di trovare?
Qualche volta è uno scherzo brutto!

La G è una grassona
seduta in poltrona.
Gran golosa di torta alle mele,
è una mangiona di prima classe.
Non guarda più nemmeno la tele
e se mangiando poi un giorno scoppiasse?

La H è un mistero
per il mondo intero.
Per tutti i bambini è una difficoltà,
ma alla fine è così facile capire:
è come un ponte tra due metà,
e serve proprio per unire.

La I è un’esperta di magia,
allieva di un mago di periferia.
Lunga come una vera bacchetta
inventa incantesimi solo al mattino
e li pronuncia sempre in gran fretta…
così alla fine appare solo il puntino.

La L è pigra, magra, minuta,
se ne sta lì, sempre seduta.
Non si alza per mangiare, figuriamoci per salutare!
La pigrizia è un brutto difetto
adesso non vien più nemmeno a giocare
un giorno o l’altro finirà a letto!

La M è larga come un portone,
sotto ci passano tante persone.
C’è un gran passaggio verso le sette,
bambini e bambine vogliono entrare…
ma è un teatro di marionette!
Fin dalla porta le senti recitare!

La N è un uccello con un’ala sola,
che peccato, così non vola!
Non vuole cantare, si sente un po’ giù
ma può saltare lontano fin là
allora si allena ogni giorno di più
al salto in lungo sa che vincerà!

La O è tonda tonda
come una tromba.
La sua bocca è importante
sembra fatta per cantare
ma nemmeno da grande
imparerà mai a suonare!

La P ha una testona,
come una bimba zuccona.
Non segue mai un consiglio,
fa sempre di testa sua,
ma quando fa uno sbaglio
dice che è colpa tua!

La Q si succhia il pollicione
come un bimbo dormiglione.
Sa che non si dovrebbe fare,
un giorno o l’altro si deciderà:
imparerà a non succhiare,
ma poi senza dormire, come farà?

La R è una smorfiosa,
se ne sta dritta in posa.
Appoggia la gamba sempre un po’ avanti,
aspetta che tutti la stiano a guardare
e poi si mette la mano sui fianchi,
chissà a chi crede di assomigliare?

La S è certamente un serpente buono,
come lui, tanti altri non ce ne sono.
Il suo problema, l’avrai capito,
è che proprio non vuol strisciare
vuole star dritto come il tuo dito,
ma non ci riesce e si deve curvare.

La T ha un bel cappello
che le serve da ombrello.
Ogni mattina guarda il cielo splendente:
- Non sembra proprio che pioverà.
Così il suo cappello non serve a niente…
ma dal sole forte la riparerà.

La U ha un gran sorriso
che le riempie il viso.
Allegra e spensierata
corre nei prati in cerca di amici.
Sa viver bene la sua giornata,
se corri con lei sarete felici!

La V è sdraiata
con la schiena appiattita,
la testa in giù e i piedi in sù.
Si guarda le gambe che vagano in aria
e vede tutto da sotto in sù.
Le sembra meglio, quel mondo al contrario!

La Z alla fine
è tra le più carine.
S’inchina e saluta,
sorride contenta:
- L’alfabeto è finito!
E se ne va lenta, lenta.

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Il gioco del “Se fossi…”

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Se fossi da mangiare…
sarei una crostata di mele
sotto croccante e sopra morbida e lucida.
Starei sempre pronta nella credenza di una nonna
per tutti i nipotini che passano di lì.

Se fossi da mangiare…
sarei un piatto di gnocchi al formaggio
me ne starei lì pronto per un assaggio,
e mi divertirei un mondo a filare e filare…
da impedire a chiunque di mangiare!

Se fossi da mangiare…
sarei una torta di compleanno
con sempre più candeline accese ogni anno
e ognuna può avverare il desiderio
di quel bambino che le sta soffiando tutto serio.

Se fossi un albero…
sarei un salice piangente
vivrei sulla riva di un torrente;
parlerei con i pesci che lì sotto
vengono a chiacchierare come in un salotto.

Se fossi un albero…
sarei un bel pino monumentale
troppo grande per essere un albero di Natale,
me ne starei sotto la neve tutto l’inverno
ospitando scoiattoli al mio interno.

Se fossi un albero..
sarei una grande quercia
l’unica rimasta sulla piazza di Norcia
alla sua ombra siedono nonni e nipotini
riposano e giocano anche senza dei veri giardini.

Se fossi un fiore…
sarei una fresia profumata
nel mezzo di un’aiola colorata;
api e farfalle verrebbero a farmi festa
e sarei sicura che nessuno mi calpesta!

Se fossi un fiore…
sarei una rosa rosso fiamma
da regalare proprio alla mia mamma
e sarei certo una rosa senza spine
simbolo di un amore senza fine!

Se fossi un fiore…
sarei un tulipano
uno dei tanti di un paese lontano
Il babbo dice che si chiama Olanda
con tante biciclette e prati verdi
- sei piccolo per andarci, lì ti perdi! -
e finché non sarò grande non mi manda.

Se fossi un animale…
sarei un serpente velenoso
dalla lingua biforcuta.
Me ne starei nella giungla
pronto a spaventare
chi mi viene a cercare.
E sarei sempre rispettato dagli animali del vicinato.

Se fossi un animale…
sarei un gattone tigrato
con gli occhi gialli e la coda folta.
Me ne starei appisolato sui piedi della zia
e giocherei con il gomitolo del suo lavoro a maglia infinito.

Se fossi un animale…
sarei un rinoceronte
con un corno piccolo ed uno imponente
farei paura a tanta gente;
e me ne starei in compagnia di quell’uccellino
che pulisce la mia pelle mentre mi faccio un pisolino.

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Viva la mamma

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C’è folla tutte le sere
nei cinema di Bagnoli
un sogno che è in bianco e nero
tra poco sarà a colori
l’estate che passa in fretta
l’estate che torna ancora
e i giochi messi da parte
per una chitarra nuova…

Viva la mamma
affezionata a quella gonna un po’ lunga
così elegantemente anni cinquanta
sempre così sincera

Viva la mamma
viva le donne con i piedi per terra
le sorridenti miss del dopoguerra
pettinate come lei!

Angeli ballano il rock ora
tu non sei un sogno tu sei vera
viva la mamma perché
se ti parlo di lei, non sei gelosa!…

Viva la mamma
affezionata a quella gonna un po’ lunga
indaffarata sempre e sempre convinta
a volte un po’ severa
viva la mamma
viva la favola degli anni cinquanta
così lontana e pure così moderna
e così magica

Angeli ballano il rock ora
non è un juke-box è un orchestra vera
viva la mamma perché se ti parlo di lei
non sei gelosa!…

Bang bang – la sveglia che suona
bang bang – devi andare a scuola
bang bang – soltanto un momento
per sognare ancora!…

Viva la mamma
viva le regole e le buone maniere
quelle che non ho mai saputo imparare
forse per colpa del rock!…

Viva la mamma è uno dei tantissimi contenuti che puoi trovare su Filastrocche.it

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