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Channel: I testi della tradizione di Filastrocche.it
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Il girasole

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Il girasoleÈ la mia vita
seguire il sole nel cielo,
sotto il suo sguardo di fuoco
non piego mai lo stelo.

Come in una danza
cerco la sua luce
il suo calore
e giro
giro
finché mi batte il cuore.

Giro
e giro
giallo di gioia
e di felicità
le ore passano
in tutta libertà.

Ma poi
il sole tramonta
e io
non so più
con chi danzare
che senso avrebbe
continuare a girare?

Così mi fermo
e aspetto
so che è solo una pausa
e che la mia danza
non è finita:
la notte passa in fretta
e ricomincia la vita.

 

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Solamente un marinaio

Dies

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DiesIl sole brucia implacabile, uguale,
le stoppie gialle del pian vaporoso,
L’azzurra volta del ciel luminoso
riflette in terra la fiamma estiva.
Non muove foglia. La vita animale
langue in un grave sopor neghittoso.
Turba la pace al meriggio affannoso
solo un modesto frinire di cicale.

 

 

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La morte non è niente

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morte non è niente

Leggiamo insieme: La morte non è niente di Henry Scott Holland, scritta nel Maggio 1910.

La morte non è niente. Non conta.
Io me ne sono solo andato nella stanza accanto.
Non è successo nulla.
Tutto resta esattamente come era.
Io sono io e tu sei tu
e la vita passata che abbiamo vissuto così bene insieme è immutata, intatta.
Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora.
Chiamami con il vecchio nome familiare.
Parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.
Non cambiare tono di voce,
non assumere un’aria solenne o triste.
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere,
di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme.

Sorridi, pensa a me e prega per me.
Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima.
Pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza.
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto.
È la stessa di prima,
c’è una continuità che non si spezza.
Cos’è questa morte se non un incidente insignificante?
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri solo perché sono fuori dalla tua vista?
Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo.
Va tutto bene; nulla è perduto.
Un breve istante e tutto sarà come prima.
E come rideremo dei problemi della separazione quando ci incontreremo di nuovo!

 

Note sul testo:
Henry Scott Holland (1847 – 1918) è stato un teologo e scrittore britannico, Regius Professor of Divinity presso l’Università di Oxford.

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Pensiero Mare

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Pensiero MareMare di sale
di onda e di vela
mare di sole
di aria e di cielo
mare di scoglio
di sabbia e conchiglia
mare di riccio
di pesce e balena
mare di soffio
di urlo e di suono
mare di sogno
di viaggio e avventura
mare disteso
nel mio pensiero
perché ogni volta
che io ti penso
non mi diventi mare davvero?

 

 

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Il caldo

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Il caldoChe giorni caldi, caldi,
che affanno di calura:
darei tutti i miei soldi
per un po’ di frescura.
Che ore d’afa, d’afa,
sotto il gran sole rosso:
è come se una stufa
soffiasse fuoco addosso.
Che caldo, caldo, caldo,
mi sento soffocare:
ma il vento maramaldo
perché non vuol soffiare?

 

 

 

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Gabbiano a pedale

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Gabbiano a pedaleUn gabbiano a pedale non è un pedalò
e pedalare sul mare non può.
Vorrebbe volare nel cielo però
pur pedalando lui mal s’involò.

Un gabbiano a pedale è ben strano perciò
non è naturale né tanto né un po’
e pur se ho studiato un’idea non ho
di questo gabbiano che ingabbiare non so.

 


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Filastrocca per lavarsi


I compiti delle vacanze

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I compiti delle vacanzeIo li faccio in tutte le stanze,
in una completo l’aritmetica
e stare in cucina un po’ mi solletica!

Nell’altra mi faccio italiano,
nel salotto leggo e commento piano,
in un’ altra ancora ripasso geografia
perché nel lettone sogno di fuggire via.

Da un’altra parte ripasso pure storia
perché nel corridoio mi torna la memoria!
Dove faccio i compiti delle vacanze?
In tutta la casa, in tutte le stanze!

 

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Il silenzio

La fontana malata

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fontana malata

Leggiamo insieme: La fontana malata di Aldo Palazzeschi

Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchette,
chchch…
È giù,
nel cortile,
la povera
fontana
malata;
che spasimo!
sentirla
tossire.
Tossisce,
tossisce,
un poco
si tace…
di nuovo
tossisce.
Mia povera
fontana,
il male che hai
il cuore
mi preme.
Si tace,
non getta
più nulla.
Si tace,
non s’ode
romore
di sorta
che forse…
che forse
sia morta?
Orrore
Ah! No.
Rieccola,
ancora
tossisce,
Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
chchch…
La tisi
l’uccide.
Dio santo,
quel suo
eterno
tossire
mi fa
morire,
un poco
va bene,
ma tanto…
Che lagno!
Ma Habel!
Vittoria!
Andate,
correte,
chiudete
la fonte,
mi uccide
quel suo
eterno
tossire!
Andate,
mettete
qualcosa
per farla
finire,
magari…
magari
morire.
Madonna!
Gesù!
Non più!
Non più.
Mia povera
fontana,
col male che hai,
finisci
vedrai,
che uccidi
me pure.
Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchete,
chchch…

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Ninna nanna amore mio

Romagna

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Romagna

Leggiamo insieme: Romagna di Giovanni Pascoli

Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l’azzurra vision di San Marino:

sempre mi torna al cuore il mio paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.

Là nelle stoppie dove singhiozzando
va la tacchina con l’altrui covata,
presso gli stagni lussureggianti, quando
lenta vi guazza l’anatra iridata,

oh! fossi io teco; e perderci nel verde,
e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
gettarci l’urlo che lungi si perde
dentro il meridiano ozio dell’aie;

mentre il villano pone dalle spalle
gobbe la ronca e afferra la scodella,
e ‘l bue rumina nelle opache stalle
la sua laboriosa lupinella.

Da’ borghi sparsi le campane in tanto
si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano al rezzo, alla quiete, al santo
desco fiorito d’occhi di bambini.

Già m’accoglieva in quelle ore bruciate
sotto ombrello di trine una mimosa,
che fioria la mia casa ai dì d’estate
co’ suoi pennacchi di color di rosa;

e s’abbracciava per lo sgretolato
muro un folto rosaio a un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un birichino.

Era il mio nido: dove, immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l’imperatore nell’eremitaggio.

E mentre aereo mi poneva in via
con l’ippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;

udia tra i fieni allor falciati
de’ grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.

E lunghi, e interminati, erano quelli
ch’io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettio d’uccelli,
risa di donne, strepito di mare.

Ma da quel nido, rondini tardive,
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or è dove si vive:
gli altri son poco lungi; in cimitero.

Così più non verrò per la calura
tra que’ tuoi polverosi biancospini,
ch’io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozioso i piccolini,

Romagna solatia, dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.

 

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Il monumento megalitico

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Il monumento megaliticoOh! Muto Tempio
Arcano Monumento
Da pietre antiche
Di antica terra eretto;
Dall’alto del Monte
Fin sulle valli in basso,
Fin dove lo sguardo
Non coglie più visione
Su tutto domini e contempli.

Di Tua novella m’è giunta eco
Mi ha preso il corpo e l’anima
I miei passi ha mosso
Per condurmi al Tuo cospetto
Senza che potessi oppormi
Smaniavo, anzi, di partire
La Ragione ormai spenta
Attratto alla mia meta
Come falena alla luce
Che ignara del suo agire
E’ obbligata al suo destino.

A Te son venuto, quindi,
Assecondando il mio;
Ho scalato ripidi sentieri
Attraverso il fitto bosco,
Senza temerne le oscure tenebre;
Ho squarciato le spire di mille rovi
Che invano si son poste
Ad intralciare il mio cammino
Avvolgendosi come tentacoli
Ai polsi e alle caviglie.

A Te son giunto, infine
Con le vesti lacere
E graffi sulle membra,
Madide di sudore.
Dinanzi alle tue vestigia
In ginocchio son caduto,
Il capo reclino, il mento sfiora il petto:
Potente su di me
Incuti soggezione.

Avverto l’enorme Tua saggezza,
L’incalcolabile sequenza d’esperienze
maturate in millenni d’esistenza
Sedimentate tra le pieghe della Tua materia
Giacchè Testimone sei di Storia
E di storie umane custode,
Di noi insignificanti mortali
Che al tuo paragone
Duriamo il tempo d’un respiro.

E all’improvviso mi si stringe il cuore
Mi sento così piccolo, indifeso,
Come un granello di sabbia in balia del vento.
Quante cose vorrei chiederti,
Se solo Tu parlassi!
Ma Tu parli, invece, con le Tue silenziose pietre!
Ed io, stolto, non so comprendere il Tuo linguaggio.
Ora lo so che sei testimonianza
Di un tempo che fu, che non tornerà,
Di un tempo ancora bambino,
Non ancora corrotto
E perso nei recessi cronologici.

Ora lo so che sei eredità
Di antichissimi Avi, di remote Genti
Avviluppate in un alone di mistero
Non più selvagge ma ancora acerbe
Mosse però dall’Armonia dei cicli vitali
Dal religioso rispetto di Madre Natura
Ma ormai estinte e sconosciute per sempre.

Ora so di tutto questo
E non posso che avvilirmi
Ripensando a quel che ormai
Da tempo m’ è già noto:
Che di Te, purtroppo, non c’è più memoria
Di quel che fosti e che sarai per sempre.

Perduto è il tuo ricordo
Alla maggioranza di noi posteri
Di noi distratta progenie,
Di diverso spirito, di diversa fede
A cui non parli più, né più servi.

Perso
Ti sanno riconoscere
Osservandoti nel profondo
Oltre la nuda roccia.
Ed ora, qui davanti a Te,
Sono ancora prono.
Mi concedi di toccarti
Con i palmi delle mani,
Le braccia levate in alto,
Protese su di Te
E di poggiar la fronte
Sulla Tua superficie litica
Levigata dal tempo
E dalla furia degli elementi.

E così mi immagino, in cotal postura,
Come antico pagano ai piedi di un’ara
Invocando grazia ad arcaiche divinità.
Ed infatti il prodigio si compie
Percepisco la Tua energia interiore
Con tenue vibrazione si manifesta
Solleticandomi la cute
Laddove ti lambisce;
E d’un tratto si riversa in me,
Per un attimo son frastornato
Mentre un fremito mi attraversa
Ed i sensi son confusi.

Poi tutto finisce in un batter di ciglia
Così com’è cominciato.
Mi rialzo in piedi, ancora sbigottito,
Ma è solo per un momento,
Quanto basta per riavermi
E di colpo mi sovvengo,
Proprio in questo istante,
che di nuovo son tornato
Padrone di me stesso.
Finalmente libero
Con Te non ho più vincoli.

Ma sento ora in me
Una consapevolezza tutta nuova,
Questo, dunque, è il dono
Che per me avevi in serbo,
Di farmi riscoprire
Chi veramente sono
Attraverso la conoscenza
Di tutto il mio passato,
Di chi mi ha preceduto e delle sue azioni,
Quelle buone e quelle cattive.
Perché altro non sono
Che la summa dei vissuti
Di miriadi di persone
Susseguitesi nel tempo
sin dagli albori.

Sono il prodotto finale
Di mille storie millenarie,
Di tutti i miei avi
Son l’erede universale.
Ognuno di loro ha contribuito
A far di me quel che oggi sono.
Ognuno di loro vive in me
E vivrà ancora
Per mezzo dei miei figli
Ed i figli dei miei figli,
Finché Tempo e Fato lo vorranno.

Solo ora posso tracciare
Un percorso sicuro
Lungo il quale vivere il presente
Con animo più sereno
E gettare uno sguardo al futuro
Con rosea speranza.

Per l’uomo non c’è progresso
Quando nega il suo passato
Dimenticando chi era il padre
Ed il padre di suo padre.
Avanzando nel suo percorso
Dovrà pur voltarsi indietro
A riguardar i passati eventi,
Come a voler rivedere
Un vecchio lungometraggio;
Tanti insegnamenti ne può trarre
Onde evitare il ripetersi degli errori
Mentre procede la scrittura
Del libro di sua storia.

Questa, dunque, la lezione
Che Tu, preistorico Tempio,
Hai voluto tramandarci.
Per me è grande onore
Esserne l’indegno latore.
Immensamente Ti ringrazio
Per il prezioso dono.
Riverente m’inchino
volgendo il mio saluto.

Ti lascio alla Tua pace
E prendo infin commiato.
Un’ultimo sguardo Ti rivolgo
Appressandomi al ritorno
Quindi m’accingo all’arduo compito
Conscio del suo peso.

E’ il vero senso del tuo esistere
Che a stento sopravvive
Quale flebile traccia di un antico sapere
Nei miti e nelle leggende
E nei racconti popolari;
Ormai financo le tue origine
Sono attribuite al caso,
Frutto dei capricci di natura
Erroneamente ritenute,
Non riconoscendo in Te
Ingegno umano alcuno.
Solo pochi illuminati

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A mia madre

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A mia madre

Leggiamo insieme: A mia madre di Filippo De Pisis

Una voce dal mar dei ricordi,
va dritta al cuore
e lo fa tremare!
Madre perduta,
la tua fronte pura,
le tue mani,
la tua benedizione, a sera.
Una voce sull’aria
da un bianco arco,
di là da un cancello chiuso,
rugginoso
sale verso il Paradiso,
madre lontana.
Una voce sull’aria
dai monti.

 

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Gli auguri dell’innocenza

Il cavallo galoppa galoppa

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Il cavallo galoppa galoppaIl cavallo galoppa galoppa
e felice il principe gli salta in groppa.
Incontra per strada un uccellino
che con un tenero sorriso gli fa l’inchino.
Guarda un po’ chi c’è laggiù!
È il merlo, col suo becco al’insù.
Ora salta nello stagno
e saluta le rane che fanno il bagno.
Ci sono anche tanti pesci,
e se qualcuno a vederlo riesci,
ti salutan con le pinne piccole e grosse,
verdi, gialle, blu e rosse.
Che spettacolo – dice il cavallo –
tutti gli animali fanno un ballo!
E dopo tanta festa e allegria
fa un salto e corre via!

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Il Re di Tule

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Re di Tule

Leggiamo insieme: Il Re di Tule di Johann Wolfang Goethe

Fedel sino a l’avello
Egli era in Tule un re:
Mori l’amor suo bello,
E un nappo d’òr gli diè.

Nulla ebbe caro ei tanto,
E sempre quel vuotò:
Ma gli sgorgava il pianto
Ognor ch’ei vi trincò.

Venuto a l’ultim’ore
Contò le sue città:
Diè tutto al successore
Ma il nappo d’or non già.

Ne l’aula de gli alteri
Suoi padri a banchettar
Sedè tra i cavalieri
Nel suo castello al mar.

Bevè de la gioconda
Vita l’estremo ardor,
E gittò il nappo a l’onda
Il vecchio bevitor.

Piombar lo vide, lento
Empiersi e sparir giù;
E giù gli cadde spento
L’occhio e non bevve più.

 

Immagine: L’isola di Tule raffigurata nella Carta marina di Olao Magno (del 1539). L’isola è chiamata “Tile”. Accanto all’isola sono raffigurati un “mostro visto nel 1537”, una balena, e un’orca.

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Il gabbiano sul mare

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Il gabbiano sul mareC’è un gran sole sul mare.
Fumano le ciminiere
sporche e oleose, nere
di fumo denso, cattivo.

Vola un gabbiano bianco
sulle onde azzurrine.
Dàn fumo le ciminiere.
Vogliono farlo morire.

Ma il gabbiano guizza via
e vola vola lontano
fino alle isole chiare
dei fiori e delle magie.

 

 


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Il mio corpo

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Il mio corpoHo una bella testolina
che mi serve per pensare,
due braccine, due manine
con cui tanto posso fare.

Ho due gambe, due piedini
che stan sempre ben vicini
e mi fanno camminare
ma io intanto posso urlare
con la bocca mia piccina:

il mio corpo è “senza spina”
ma lui ben sa funzionare,
basta un poco di mangiare,
proteine, pasta, frutta
e io me la godo tutta!

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